domenica 28 agosto 2016

Selinunte e S. Elpidio

lunedì 29 agosto 2016


Oggi ho accompagnato i miei nipotini romani che ospito a Villa Merycal di Racalmuto a Selinunte. I ragazzini si immergono in questo ammaliante ed arcano mondo. Fotografano, partecipano, gioiscono, mi rendono allegro, infantile, annuente.
Sì, in Sicilia ci sanno fare: proteggono e valorizzano questo patrimonio archeologico che sarà anche patrimonio dell'Umanità ma innanzitutto  è patrimonio mio, della mia terra, della mia Sicilia.
Odio l'autolesionismo.
Faccio un confronto. Nel Cicolano, tra S. Elpidio, Castagneta, Alzano e Petrignano (una bella landa montana che appellano Vaticano) dormono sonni quieti ed ignari una città romana (Suna), strade consolari, negletti reperti di gran valore anche epigrafico, eppure non son riuscito neppure a spingere il sindaco di Pescorocchiano a far ripulire il Cenobio dell'anno Mille che pur vi si erge. Querce possenti vi crescono, ma i loro rami si insinuano in quelle mura millenarie e le stanno squarciando, distruggendo, imperversandovi.
Ieri alla Valle dei Templi oggi a Selinunte  ho potuto apprezzare tanta solerzia delle competenti Autorità nel  pulire, dotare, rispettare, conservare meraviglie archeologiche che tanto turismo riescono ad attirare.

Calogero Taverna
I templi di Selinunte di Valentina Pinnaparco archeologico selinunte guida selinunte mappa selinunte templi greci Sicilia guida di selinunte acropoli viaggio mappa tempio dorico visita guidata templi Sicilia
Il Parco Archeologico di Selinunte: acropoli di Selinunte. Sullo sfondo il Tempio CLa città di Selinunte sorge su un promontorio, poco distante dal mare, tra Marsala e Agrigento. Dapprima abitata dai Sicani e poi dai Fenici, fu colonia greca a partire dalla metà (o dalla fine) del VI sec. a. C.
Il parco archeologico di Selinunte è oggi considerato il più ampio ed imponente d’Europa: si estende per 1740 km quadrati e comprende numerosi templi, santuari e altari.
Proprio presso la costa, lievemente spostata verso ovest, vi è l’acropoli, sulla quale sorgono 4 templi: il tempio D, il tempio C, il tempio A, il tempio O.
Su una collina situata ad est della cittadina, più internata rispetto all’acropoli, si innalzano altri 3 templi: il tempio G, il tempio F, il tempio E.
Nella civiltà greca il centro di tutta l’architettura era il tempio, dimora della divinità, del sacro e dell’eterno. Nell’architettura templare greca, le singole parti dovevano contribuire in maniera organica a dare al tutto il senso di ordine, perfezione e immutabilità. Il tempio, sempre rivolto verso oriente, possedeva nella sua parte più interna una cella detta naos, sede della statua del dio, dove avevano accesso solo i sacerdoti; dal prolungamento delle pareti del naos si creava un atrio, che precedeva la cella ed era chiuso nella sua parte anteriore da colonne (pronaos); naos e pronaos erano circondati da colonne che sorreggevano la parte superiore del tempio, infine il tutto poggiava su un basamento detto stilobate.
I templi di Selinunte sono costruiti tutti secondo i canoni dell’ordine dorico, lo stile architettonico greco più antico, le cui caratteristiche principali sono la semplicità e l’essenzialità, che dànno il senso dell’ordine e dell’immortalità divina, contrapposte allla fugacità e al caos del mondo sensibile.

IL TEMPIO C
Tra i più antichi templi dell’acropoli, il tempio C, costruito intorno al 580 a.C., si suppone sia dedicato al dio Apollo. Il basamento su cui si ergeva si innalzava su quattro gradini e lo stilobate misurava 63,76 m x 23,93 m. Il naos, nella parte più interna, era costituito da una cella particolarmente allungata (10,40 m x41,55 m), al centro della quale sorgeva un grosso altare per i sacrifici e in fondo l’“adyton”, quel luogo mistico e nascosto dove era ubicata la statua della divinità. Il pronaos, invece che aprirsi verso l’esterno, era chiuso da possenti mura e da una pesante porta in battenti di bronzo ripiegabili.
L’intero secos (naos, pronaos e opistodomos) era qui ancora molto simile al megaron, la sala principale del palazzo miceneo, dal quale deriva per forma e funzione religiosa; la sua pianta non rispetta fedelmente i tradizionali canoni greci, che prevedevano un naos posto al centro tra un pronaos e un opistodomos, chiusi entrambi da una successione di due o più colonne tra le pareti laterali, prolungamenti delle mura laterali del naos: subito al di fuori del pronaos, nella parte anteriore del tempio, si trovava un ampio porticato, diviso in due spazi uguali da quattro colonne.
Parco archeologico di Selinunte: il tempio EIl tutto era circondato da una peristasi di 6 x 15 colonne, equidistante dalle mura della cella sia nelle parti laterali che in quella posteriore del tempio; mentre nella parte orientale vi si distanziava il doppio per creare lo spazioso pteron (porticato). La distanza di una colonna dall’altra così come il loro diametro variano considerevolmente: alcune colonne sono costituite da sedici scalanature con un diametro di 1,72 m altre hanno invece hanno venti scalanature e un diametro maggiore (da 1,84 m a 2,02 m).
In questo senso, il tempio selinuntino non rispecchia, nel concreto, quella rigorosa attenzione e preoccupazione per l’ordine e la regolarità, tipiche della madrepatria, dando all’intera struttura un anelito di vitalità e movimento più che di immutabile perfezione.
Nel rispetto dello stile dorico, le colonne poggiano direttamente sullo stilobate e i capitelli sono semplici ed essenziali. Tutti i triglifi e le metope hanno la stessa ampiezza; Nelle metope (alcune delle quali conservate nel museo archeologico di Palermo) sono raffigurate in rilievo scene mitologiche e favolistiche. Anche sul triangolo frontonale si trova un rilievo in argilla che raffigura una gigantesca testa di Gorgone digrignante policroma “di cupa forza espressiva, tanto che non manca molto che tutto il tempio, con le sue colonne mosse da una energia vitale, con la sua enorme testa demoniaca, si trasformi in uno sfrenato essere favoloso” (Berwe, Gruben, “Selinunte”, p. 239).

IL TEMPIO D
Il tempio D è, in ordine cronologico, il secondo tempio dell’acropoli di Selinunte: costruito intorno al 560 a. C., mantiene in gran parte le stesse caratteristiche del tempio C.
Il basamento era lungo 55,96 m e largo 23,64 m, innalzato su quattro gradini. Il secos misurava 38,47 m x 9,47 m, quindi quattro volte più lungo che largo, riprendendo lo stile del tempio C. Il pronaos non è chiuso, ma aperto all’esterno attraverso la tipica struttura in antis: le pareti laterali del naos si allungano e poi vengono unite all’estremità da due colonne. A ben vedere, però, nel tempio D, le colonne che chiudono il pronaos non erano due ma quattro: le due colonne esterne erano addossate ai muri del pronaos. Questa struttura non era altro che una traslazione delle quattro colonne che, nel tempio C, dividevano il gran porticato anteriore, creando oltre al portico orientale anche un avamportico: una via di mezzo tra il tipo di pronaos più antico del tempio C e quello dorico in antis, più moderno. Tra il tempio C e il tempio D si possono quindi notare il progresso tecnico e le tendenze di modernizzazione seguite dalla civiltà selinuntina.
La peristasi era formata da 6 x 13 colonne, che insieme con le mura del naos e del pronaos formano quattro portici, dei quali quelli frontali sono leggermente più larghi di quelli laterali (rispettivamente 6,14 m e 4,94 m).
Come accade per tutti gli altri templi, non si sa bene a chi sia dedicato il tempio D: alcuni lo attribuiscono a Giove Agoreo, altri ad Afrodite.

I TEMPLI A ed O
Numerosi studiosi attribuiscono i templi A e O a Castore e Polluce, i due fratelli figli di Leda e l’uno di Tindaro e l’altro di Giove. Polluce ebbe dal padre Giove il dono dell’immortalità e chiese al dio di poterlo condividere con l’amato fratello; Giove, visto il grande affetto che legava i due fratelli, dispose che sarebbero vissuti e poi, insieme, trasformati in due astri: quegli stessi astri che, nello zodiaco, hanno il nome di “Gemelli”.
Selinunte, parco archeologico: resti delle colonne doriche del Tempio FProprio perché dedicati ai due fratelli, il tempio A e il tempio O erano identici: lo stilobate misurava 40,13m x 16,23 m. Il secos rispettava la tradizione greca classica con pronaos e opistodomos in antis e naos al centro. Se la cella comincia ad essere molto meno allungata, come vuole l’architettura moderna, l’adyton è isolato dall’opistodomos, come nelle piante dei templi più antichi. La peristasi era formata da 6 colonne x 14 alte 7,17 m e costituite da sette blocchi e venti scalanature.
Si nota qui, rispetto ai templi precedentemente costruiti, maggiore regolarità e simmetria tra le parti.

I TEMPLI G, F, E
Su una collina ad est dell’acropoli sorgono altri tre templi (G, F, E) a testimonianza dell’ “ansia costruttiva di questa città commerciale” (Berwe- Gruben, op. cit.), che deriva, più che dalla sua devozione religiosa, dal forte spirito di emulazione tipico della civiltà greca.
Il tempio G è il più grande non solo dei templi selinuntini, ma, insieme con l’Olimpico di Agrigento, l’autentico colosso dell’architettura ellenica. Il suo stilobate misurava, infatti, 50,07 m x 110,12 m. Queste enormi dimensioni esprimevano il carattere selvaggio e passionale della Sicilia, ma non si trovavano affatto nella cultura architettonica ateniese, dove era impensabile oltrepassare quella che ormai era stata definita “la giusta misura”.
Il tempio doveva essere stato costruito per i grandi panegirici popolari, che attiravano un’immensa folla. Osservando la particolare struttura del pronaos, si può notare la preoccupazione, da parte dei suoi costruttori, di fornire uno spazio sufficientemente ampio per le processioni che portavano doni alla divinità: al posto delle due colonne in antis, vi era una porta molto ampia fissata sulle pareti laterali e, immediatamente al di fuori, un atrio “prostilo”, lungo due colonne e largo quattro.
Il naos misurava 22,50 m x 69,10 m e con la sua proporzione 1/3 superava, ormai quasi del tutto, l’eccessivo allungamento arcaico. Per la prima volta nella tradizione architettonica siciliana, la cella è divisa in tre navate, quasi della stessa ampiezza, da due file di dieci colonne, grandi 1/3 rispetto a quelle esterne e indispensabili per reggere il tetto di un vano talmente spazioso. L’opistodomos è in antis e si ritiene sia stato costruito successivamente, sul luogo dove, una volta, era posto l’adyton, per adeguarsi allo stile architettonico più moderno. La peristasi era formata da 8 x 17 colonne e la particolare ampiezza dei portici, tipica dei templi selinuntini, era qui maggiormente rafforzata.
Selinunte, collina est: i giganteschi rocchi delle colonne del Tempio G La costruzione del gigantesco monumento durò per lungo tempo, circa un secolo, tanto che, nello stesso tempio, si poteva notare un’evoluzione dello stile selinuntino, che ha portato l’opera ad essere l’espressione di un dualismo architettonico: in parte arcaico e in parte classico. Tale dualismo era maggiormente riscontrabile nelle colonne e nei capitelli: i colonnati est, nord sud-ovest e del pronaos sono arcaici, con colonne snelle alte cinque volte il diametro inferiore di 2,97 m e con un echino panciuto e un abaco enorme (largo 3,91 m e lungo 2,60 m); il colonnato ovest e dell’opistodomos, con i suoi capitelli, seguono invece delle forme appartenenti allo stile classico greco, che nella metà del V sec. si stava ormai rapidamente diffondendo.
Il tempio G, a causa della sua immensa grandezza, non fu mai terminato; tuttavia questo ambizioso progetto dimostra che la civiltà di Selinunte aveva raggiunto una sicurezza e una padronanza tale nell’ambito architettonico, da saper affrontare i non pochi problemi tecnici, propri della costruzione di un edificio dalle vastissime dimensioni, senza esempi o esperienze precedenti nell’ordine dorico.
Il tempio F è posto al centro dei templi G ed E della collina est di Selinunte ed è stato costruito intorno al 530 a.C., immediatamente dopo il tempio C, come si capisce dalla forma particolarmente allungata del suo naos (9,20 m x 40 m) e dalla pianta del secos: un ferro di cavallo con il pronaos chiuso anche nella parte anteriore da grandi porte bronzee e l’adyton in fondo alla cella.
Lo stilobate aveva una lunghezza di 61,84 m e una larghezza di 24,43 m; l’intero basamento, come in quasi tutti i templi di Selinunte, era costituito da quattro gradini.
Tornando alla pianta interna del tempio, immediatamente fuori dal pronaos vi era un protiron, cioè uno stretto corridoio d’entrata e poi un avamportico, i due separati da quattro colonne, che giungono fino a congiungere le terze colonne dei peristili laterali.
La peristasi è formata da 6x14 colonne: queste ultime erano caratterizzate da una sensibile snellezza. La loro altezza (9,11 m) corrispondeva a cinque volte il loro diametro inferiore (1,79 m). Una snellezza eccessiva non solo rispetto ai templi dorici classici (alte 4,6 volte il diametro inferiore), ma addirittura anche rispetto ai primi templi in stile ionico.
Un’altra caratteristica veramente insolita di questo tempio è che gli spazi tra una colonna e l’altra della peristasi erano chiusi da un sottili lastre di pietra, alta 4,50 m e spessa 0,37 m, che assicuravano la segretezza delle cerimonie religiose, che si svolgevano nei portici attorno al secos.
In definitiva, anche il tempio F è l’incrocio tra stili diversi: la pianta con il suo avanportico è di tipo pre-dorico e arcaico, mentre le colonne, le metope e i fregi testimoniano il pieno sviluppo e l’ormai raggiunta padronanza dell’ordine dorico.
Molti storici attribuiscono il tempio F ad Atena, figlia prediletta di Zeus e divinità guerriera, saggia e prudente.
Il tempio E è il più recente dei templi di Selinunte, innalzato tra il 465 e il 450 a.C. Finalmente l’architettura templare selinuntina raggiunge il pieno classicismo, con le sue proporzioni aggraziate, la forte attenzione per la precisione simmetrica e la regolare organicità fra le parti.
Lo stilobate si estendeva per 25,32 m x 67,74 m, quindi era abbastanza ampio rispetto ai templi della madrepatria, la quale poteva contare solo tre templi delle medesime dimensioni: il Partenone, il tempio di Zeus ad Olimpia e un altro tempio costruito a Corinto.
La sua forte simmetricità si nota fin dalla pianta del secos: alla parte anteriore e posteriore del naos corrispondono rispettivamente un pronaos e un opistodomos in antis delle stesse dimensioni. Tuttavia, per non tagliare definitivamente i ponti con la tradizione indigena, fu mantenuto, all’interno del naos, l’adyton, isolato dall’opistodomos attraverso possenti mura e, dal resto della cella, con una porta. L’adyton dà così ancora alla cella quella forma allungata tipica dello stile arcaico selinuntino.
Davanti al muro di fondo è stata trovata una base quadrata con un lato di 1,10 m, circondata da quattro buche scavate sul pavimento, le quali contenevano i supporti per un baldacchino: la base per il piedistallo dove veniva posta la statua di Era, ldivinità alla quale il tempio era dedicato.
La peristasi era costituita da 6 x 15 colonne e le terze colonne dei lati corrispondono alle ante del pronaos, nella parte anteriore, e dell’opistodomos, nella parte posteriore, in un totale accordo tra le parti del tempio, tipico del classicismo. Le colonne erano tutte di uguale dimensione, con venti scalanature e alte 10 m, compreso il capitello.
Sopra le colonne, le metope ritrovate (1,41 m) sono più larghe dei triglifi (0,95 m): era quindi dato loro più valore rispetto a questi ultimi. Circa i rilievi degli altri templi in stile più arcaico, si nota qui una semplicità, una moderazione e una calma nei gesti e nelle figure che è ancora un’ulteriore testimonianza del pieno raggiungimento dell’ordine dorico maturo e dello stile greco classico.

giovedì 18 agosto 2016

LUMEN di Carsoli è una luminosa iniziativa culturale in que



ste propaggini della civiltà EQUA.  Una epigrafe rinvenuta a Poggio Cinelfo (AQ) con scalpellata una scritta da destra a sinistra in caratteri non certo romani non dà luogo a dubbi: scrittura OSCA come quella delle tante epigrafi del Cicolano pubblicate da quel medico di impareggiabile genialità, che fu  DOMENICO LUGINI di Santa Lucia di Fiamignano.

A Carsoli diligentemente ed encomiabilmente non si sono accontentati dei tanti epigrafisti locali, pur di fama nazionale , ma han voluto per avere lumi scientifici ponderati il prof. TIMO SIRONEN , docente di lingue e culture dell'Antichità presso l'università degli studi di Oulu in Finlandia.

E hanno avuto ragione: ecco quanta e quale dottrina, quanta e quale competenza archeologica e storica, ecco quali collegamenti e coordinamenti si sono potuti raccogliere. E pubblicare per la valorizzazione  culturale e turistica dell'intera landa carseolana.

Tanto dovrebbe indurre l'amministrazione comunale della finitima PESCOROCCHIANO, chiunque ne sarà la prossima primavera il Sindaco, a colte emulazioni.
Calogero Taverna 

sabato 13 agosto 2016

Lillo Taverna ha condiviso la sua foto.
11 h
Lillo Taverna
Questo libro da pag. 37 a pag. 140 l'ho scritto io nell'autunno del 1979. Ho corso il rischio di venire incriminato per violazione dei segreti di stato e di stati. Ma Imposimato nei sotterranei dell'EUR fece finta di ignorare. Calogero Taverna
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Lillo Taverna Spifferavo a pag. 142: "Nel setembre del 1979 il quotidiano 'Lotta Continua' pubblica il fitto elenco di enti pubblici che hanno depositato soldi presso lo sportello di Via Veneto della Banca Privata Finanziaria, già sede del Credicomin, l'azienda di credito in liquidazione coatta di cui era presidente il principe nero Iunio Valerio Borghese". Ne avevo sussurrato a don Peppino D'Alema il padre di Masimo D'Alema, allora Presidente ella commissione Finanza e Tesoro. Don Peppino, spirito salace e libertario .si era conservata la castagna e quando venni convovato a San Macuto per l'inchiesta parlamentare sul caso Sindona me la sparò per sapere l'inosabile. Ma fui subito bloccato dal Vicepresidente dell'Inchesta, il compagno allora feroce Emmanuele Macaluso. Fui intimato a mantenere il massimo segreto. Non si andò avanti. Perché mi chiedo ancora- Per salvare l'onore di Fanco Evangelisti cui il compagno Emmanuele teneva tanto? Ma che c'entrava con Iunio Valerio Bofrghese?
Lillo Taverna La risposta mi va affiorando adesso proteso alla ricerca della verità sul caso Ettore Messana. Iunio Valerio Borghese ebbe tante responsabilità - e diciamolo chiaro: criminali - nell'eccidio di Portella delle Ginestre. Si addossò la colpa a Giuliano, magari coinvolgendo Scelba e Messana. invero oggi le carte dell'OSS americano Nicola Tranfaglia pare le abbia rintracciato e si tratta di carte altamente rivelatrici e sovvertitrici di tanti luoghi comuni su certi ancora scottanti segreti di stato. Ma se ne disfece subito passandole all'incandescente Casarrubea. Senonché non s privo del piacere di scrivere a pag. 7 della sua intruduzione al libro del Casarrubea 'Storia segreta della Sicilia' del 2007: vi fu "in tutta l'Italia meridionale l'apoggio ai fascisti che si riorganizzarono e in particolare agli uomini della Decima Mas di Junio Valerio Borghese, il principe pontificio salvato dagli americani e arruolato con molti suoi ufficiali direttamente dall'OSS di JamesJenis Angleton, per azioni coperte contro gli esponenti del partito comunista italiano." E il sospetto corre subito a Portella delle Ginestre. Nel luglio del 1947 si ebbe il rutilante comizio parlamentare di Girolamo Li Causi. La vittoria recente del 20 aprile del 1947 lo aveva reso irrefrenabile. La sconfitta del 18 aprile del 148 spinse Togliatti ad esautoraro con il di vino Bufalini coadiuvato da un esuberante nisseno sindacalista: Emmanuele Macaluso. Quale passò da un compromeso all'altro in Sicilia sino a divenire alfiere dell'agrario Milazzo. Si dà il caso che Valerio Borghese Junio invece di venire procesato e condannato ritorna a Roma e viene remunerato persino con una licenza bancaria a Via Veneto come abbiamo visto. Senonché si mise o lo misero a finanziare il falso colpo di stato del colonnello dellla Forestale di Cittaducae (si fa per ire) e finì in LIQUIDAZIONE COATTA per atto provvidenziale di Carli in definitiva avalante il passaggio del mistero bancario di Via Veneto nelle più accorte documentazioni della sindonana Banca Privata Finaziaria cui mi vanto di avere dato l'esrema unzione nel settembre del 1974. Con D'Alema padre potevo contribuire a san Macuto al disvelamento di quest'altro rancido mistero di Stato. Macaluso ce lo impedì. Gli sovvenivano sue indulgenze milazziane degli anni 'Ciquanta e s'indusse a quell'ira funesta vicepresidenzale, dormiente De Martino, che mi risuona ancora alle orecchie?

venerdì 12 agosto 2016

CALOGERO RESTIVO POETA TREPIDO
 
 
AFFABILE NOVELLATORE
 

 
*****
 
Racalmuto terra aprica a Sud, sterile e stepposa a Nord- Ferace a mezzogiorno sepolta per rapaci miniere a Settentrione-
 
Vi esplodono  intelligenza e onirico vagheggiare ma per i tanti solo accidioso nulla in un abitudinario deambulare nel mediocre vivere.
 
Sciascia ci fece e per lui restammo orbi di libertà e di giustizia, privi di salute mentale (seconda chiosa del 1967 del suo fortunato Regalpetra). 
 
Nego però che in questo paese bivacchi "povera gente con grande fede nella scrittura"- A molti di noi, a quasi tutti noi "non basta un colpo di penna".
 
Tanti hanno avuto in questo paese del sale dello zolfo e del caciummo una sapidissima penna. 
 
E da ultimo mi sono incontrato con Calogero Restivo, poeta trepido e novellatore dalle lievi rimembranze locali, di questa Racalmuto appunto. 
 
Iniziai ad incuriosirmi quindi a mirare ed infine ad ammirare quanto ora si può sorbire in una sua triade poetica.
 
Scorro le poesie dell'Erba Maligna, o quelle che luccicano senza un fil rouge oppure - infine - le ultime che sciabordano "dal mare che non c'è"- Pubblicate nel 2011 o nel 2014 nonché nel 2015,  son della lontana prima giovinezza di questo ora composto e riguardoso professore di lettere in pensione. 
 
E' un mondo immaginifico che vi si riverbera: nitido ma occiduo, patetico con scisti di malinconia senza rimpianti. Forse mai gioioso, mai ilare eppure esistenzialisticamente  impulsivo, emotivo, intimo, garrulo,  affabulante,  sapidamente erotico, persino con accenti di sensuale richiamo.
 
Cespuglio di rose
Vieni a trovarmi di tanto in tanto
discuteremo dei tanti sogni
andati al macero come robivecchi
e del tempo che verrà
guardando le stelle che luccicano sempre
sembrano vicine e sono lontanissime
compagne silenziose di solitudine   
 
Ma in fondo è l'agra terra del Serrone o della Culma che ispirano memorie e sensi agresti e giovanili. Già! perché
 
sordo a lusinghe il contadino  
s'avvia verso i campi
ove l'erba maligna
complici le ultime piogge
cresce ed insidia la vigna.
 
La normalità si scompone e "la luce del viale langue/ nel buio della notte".

Il poeta ci immerge nella logica dell'illogica:
il presente ha corse e ostacoli
vicoli chiusi
anche se spingi con i pugni i muri
inutilmente per uscire
il futuro
lo deve ancora inventare la notte

La gabbia del sogno, la gabbia della vita, la gabbia dell'amore. Ma dentro i "muri" della morte.
 
 E quest'amore, questo amore del  poeta: 
immenso
come gli orizzonti 
riempiva le notti
e le stagioni.   

Alla fine il poeta sta

sotto un cielo
azzurro
e senza velo aggrappato

come naufrago  al relitto-

Gli resta da invocare:
"che non mi travolgano/ i silenzi!"

Sì, perché

"Se il silenzio ha una lingua
e una voce
un tutt'uno
con le pareti di questa stanza
che chiude il mondo fuori
vorrei sentire le parole
che le pareti hanno imparato
dai lunghi dialoghi ed attese-"



 
 
 
 
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Qualche appunto ora su Calogero Rsstivo narratore. Moderno, essenziale. circospetto eppure sempre illuminante e coinvolgente. Ci riporta in mondi che pure sono i nostri mondi ma ce li fa rivivire avvolti dalla pellicola di una sottilissima ironia, con il debito distacco che uno scrittore deve pur sempre avere. E se non concordiamo con lui, lui lo stesso concorda con noi. Sapido sapiente colto e raffinato ha giuste parole per veri fatti. E spesso sono i fatti del nostro paese, di questo Racalmuto contadino e solfataio. Vigile e se usa la corda pazza, la usa con saggezza. non vituperando. Abbiamo avuto a suo tempo di ammirare un racconto  di Calogero Restivo. Si intitola: LA PARTENZA. Queste furono le nostre brevi note a commento.


Ed ecco che possiamo ammirare un racconto di nostro ammirevole compaesano. Restivo, di questo immalinconito signore, aduso ormai al nulla, a quel che non c'è, a quello da fare, a quello da non fare. Nella notte, nel silenzio, nel caldo: in agosto. Prepararsi per un viaggio, con paratattica meticolosità, ormai prono alla estranea società dei consumi anche se non molto opulenta. Lezioni antiche ma rivisitazione tutta nuova , toccante, coinvolgente. Chi quelle notti di solitudine le ha trascorse capisce, si commuove, partecipe. Tutto pronto per partire domani. Ma domani non arriverà mai. Noia, languore, accidia, ormai disincantato esistere impongono un giaciglio, sul letto, per il salutare salvifico ritorno nel nulla.
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Chi è Calogero Restivo? Un poeta e un gran poeta possiamo dire subito. Ora però accomuna alla soavità del suo immaginismo poetico di vago sapore ermetico, un sapere raccontare, rievocare, restituire una palpabilità persino realistica al fascino della memoria della sua memoria che è poi il rimembrare la sua infanzia e prima giovinezza in quel di Racalmuto, terra aspra crudele patetica dimessa impietosa.

La Racalmuto contadina dunque, insomma la Racalmuto paradigmatica, senza Sciascia, oltre Sciascia. soggiungiamo noi, a nostro rischio e pericolo.

Ché Racalmuto non è solo Sciascia, anzi c'è di meglio, e per noi il meglio potrebbe avere  nome e cognome: Calogero Restivo poeta narratore e scrittore di Racalmuto.

Lo dimostra una sua gogoliana pagina. In una novella capolavoro che si pubblica in questa raccolta:  ecco un inno alla semplicità, al paratattico ordire di un racconto lieve toccante - E Dio sa quanto è complessa la semplicità! Una tragedia, tragedia per un piccolo uomo senza la camicia nera in tempi di cupo vestire eternamente in lutto, che inopinatamente perde il lavoro per avere inconsapevolmente disubbidito alla estemporanea bizzarria del Potere di una ben specifica Era. E ciò in un piccolo per noi noto ed amato paese: Racalmuto.

Applaudita la bella grafia del Restivo, ammirato il sommesso musicalissimo tono del racconto, noi pensiamo a quei tempi, a quel nostro paesino digradante tra i calanchi dell'altipiano Sicano, ai gerarchetti tronfi e panciuti che di nostro rammentiamo, al giummo aborrito da Leonardo Sciascia, alla Racalmuto fascistissima sino al midollo, come allora si soleva dire.

E date le nostre manie scorriamo nelle fluenti musicali pagine del Restivo mirabili pagine di storia, di veridica microstoria locale, della nostra Racalmuto insomma, anche qui paradigmatica senza Sciascia, oltre Sciascia.

Ci riferiamo al racconto di Calogero Restivo
 "La camicia nera".

Calogero Restivo è un uomo di scuola EMIGRATO a 14 anni sia pure nel nisseno o nel catanese e comunque non inquinato da quella falsa cultura, arrogante. saccente, ripetitiva, insulsa, localistica che oggi tanto ci angustia, ci indispettisce, ci annoia, ci frastorna. Una cultura - quella - epigonale secreta dalla figliolina selvatica del melanconico nichilista albero nocino.


Vi si contrappone questo autentico figlio della trepida civiltà contadina racalmutese che è il professore Calogero Restivo, docente emerito nelle terre del Verga, sicilianissimo dunque, senza germaniche intrusioni pirandelliane o toscanismi rondisti, lasciando da parte gli ipotattici inquinamenti dei locali della terra della ragione che svolazzano nel nulla credendosi persino poeti sommi o narratori d'avanguardia.

Adamantino, virilmente romantico Calogero Restivo ha stile, musicalità, ispirazione, tattilità da sapido narratore, da ammaliante rievocatore di tempi modi uomini miserie e gioie di un piccolo non dimenticato mondo antico. Ci avvince senza violentarci, ci trasporta lieve, melodicamente nei nostri ancestrali meandri della memoria, forse quella preistorica, non ancora inquinata da questo nuovo mondo millenario che rigurgita corrotti valori del millennio scorso rifiutati dall'incipiente novello millennio brancolante nel nulla creativo, sulle macerie del tutto antico, rinnegato.

Calogero Restivo è forse un conservatore, non rinnega quanto del passato donnette cerebrali dichiarano magari retrogrado. Vi è la vivifica malinconia del ricordo che trasla l'antico nel nuovo con continuità che sa di miracolo.

La Racalmuto di oggi, turbolenta, occidua, dall'avvenire isterilito, dall'orizzonte fugato, dalle miniere chiuse, dalle guerre neglette, dalle case collabenti, dalle dicerie frastornanti, dalla letteratura intristita, dal premio a Grassonelli, dalla cinematografia esausta, ha una sua voce narrante solo in questo esule dal nome e cognome priscamente indigeno: Calogero Restivo. Apprezziamolo, riscopriamolo, applaudiamolo, ringraziamolo.
 

CALOGERO RESTIVO POETA TREPIDO
 
 
AFFABILE NOVELLATORE
 

 
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Racalmuto terra aprica a Sud, sterile e stepposa a Nord- Ferace a mezzogiorno sepolta per rapaci miniere a Settentrione-
 
Vi esplodono  intelligenza e onirico vagheggiare ma per i tanti solo accidioso nulla in un abitudinario deambulare nel mediocre vivere.
 
Sciascia ci fece e per lui restammo orbi di libertà e di giustizia, privi di salute mentale (seconda chiosa del 1967 del suo fortunato Regalpetra). 
 
Nego però che in questo paese bivacchi "povera gente con grande fede nella scrittura"- A molti di noi, a quasi tutti noi "non basta un colpo di penna".
 
Tanti hanno avuto in questo paese del sale dello zolfo e del caciummo una sapidissima penna. 
 
E da ultimo mi sono incontrato con Calogero Restivo, poeta trepido e novellatore dalle lievi rimembranze locali, di questa Racalmuto appunto. 
 
Iniziai ad incuriosirmi quindi a mirare ed infine ad ammirare quanto ora si può sorbire in una sua triade poetica.
 
Scorro le poesie dell'Erba Maligna, o quelle che luccicano senza un fil rouge oppure - infine - le ultime che sciabordano "dal mare che non c'è"- Pubblicate nel 2011 o nel 2014 nonché nel 2015,  son della lontana prima giovinezza di questo ora composto e riguardoso professore di lettere in pensione. 
 
E' un mondo immaginifico che vi si riverbera: nitido ma occiduo, patetico con scisti di malinconia senza rimpianti. Forse mai gioioso, mai ilare eppure esistenzialisticamente  impulsivo, emotivo, intimo, garrulo,  affabulante,  sapidamente erotico, persino con accenti di sensuale richiamo.
 
Cespuglio di rose
Vieni a trovarmi di tanto in tanto
discuteremo dei tanti sogni
andati al macero come robivecchi
e del tempo che verrà
guardando le stelle che luccicano sempre
sembrano vicine e sono lontanissime
compagne silenziose di solitudine   
 
Ma in fondo è l'agra terra del Serrone o della Culma che ispirano memorie e sensi agresti e giovanili. Già! perché
 
sordo a lusinghe il contadino  
s'avvia verso i campi
ove l'erba maligna
complici le ultime piogge
cresce ed insidia la vigna.
 
La normalità si scompone e "la luce del viale langue/ nel buio della notte".

Il poeta ci immerge nella logica dell'illogica:
il presente ha corse e ostacoli
vicoli chiusi
anche se spingi con i pugni i muri
inutilmente per uscire
il futuro
lo deve ancora inventare la notte

La gabbia del sogno, la gabbia della vita, la gabbia dell'amore. Ma dentro i "muri" della morte.
 
 E quest'amore, questo amore del  poeta: 
immenso
come gli orizzonti 
riempiva le notti
e le stagioni.   

Alla fine il poeta sta

sotto un cielo
azzurro
e senza velo aggrappato

come naufrago  al relitto-

Gli resta da invocare:
"che non mi travolgano/ i silenzi!"

Sì, perché

"Se il silenzio ha una lingua
e una voce
un tutt'uno
con le pareti di questa stanza
che chiude il mondo fuori
vorrei sentire le parole
che le pareti hanno imparato
dai lunghi dialoghi ed attese-"



 
 
 
 
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Qualche appunto ora su Calogero Rsstivo narratore. Moderno, essenziale. circospetto eppure sempre illuminante e coinvolgente. Ci riporta in mondi che pure sono i nostri mondi ma ce li fa rivivire avvolti dalla pellicola di una sottilissima ironia, con il debito distacco che uno scrittore deve pur sempre avere. E se non concordiamo con lui, lui lo stesso concorda con noi. Sapido sapiente colto e raffinato ha giuste parole per veri fatti. E spesso sono i fatti del nostro paese, di questo Racalmuto contadino e solfataio. Vigile e se usa la corda pazza, la usa con saggezza. non vituperando. Abbiamo avuto a suo tempo di ammirare un racconto  di Calogero Restivo. Si intitola: LA PARTENZA. Queste furono le nostre brevi note a commento.


Ed ecco che possiamo ammirare un racconto di nostro ammirevole compaesano. Restivo, di questo immalinconito signore, aduso ormai al nulla, a quel che non c'è, a quello da fare, a quello da non fare. Nella notte, nel silenzio, nel caldo: in agosto. Prepararsi per un viaggio, con paratattica meticolosità, ormai prono alla estranea società dei consumi anche se non molto opulenta. Lezioni antiche ma rivisitazione tutta nuova , toccante, coinvolgente. Chi quelle notti di solitudine le ha trascorse capisce, si commuove, partecipe. Tutto pronto per partire domani. Ma domani non arriverà mai. Noia, languore, accidia, ormai disincantato esistere impongono un giaciglio, sul letto, per il salutare salvifico ritorno nel nulla.
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Chi è Calogero Restivo? Un poeta e un gran poeta possiamo dire subito. Ora però accomuna alla soavità del suo immaginismo poetico di vago sapore ermetico, un sapere raccontare, rievocare, restituire una palpabilità persino realistica al fascino della memoria della sua memoria che è poi il rimembrare la sua infanzia e prima giovinezza in quel di Racalmuto, terra aspra crudele patetica dimessa impietosa.

La Racalmuto contadina dunque, insomma la Racalmuto paradigmatica, senza Sciascia, oltre Sciascia. soggiungiamo noi, a nostro rischio e pericolo.

Ché Racalmuto non è solo Sciascia, anzi c'è di meglio, e per noi il meglio potrebbe avere  nome e cognome: Calogero Restivo poeta narratore e scrittore di Racalmuto.

Lo dimostra una sua gogoliana pagina. In una novella capolavoro che si pubblica in questa raccolta:  ecco un inno alla semplicità, al paratattico ordire di un racconto lieve toccante - E Dio sa quanto è complessa la semplicità! Una tragedia, tragedia per un piccolo uomo senza la camicia nera in tempi di cupo vestire eternamente in lutto, che inopinatamente perde il lavoro per avere inconsapevolmente disubbidito alla estemporanea bizzarria del Potere di una ben specifica Era. E ciò in un piccolo per noi noto ed amato paese: Racalmuto.

Applaudita la bella grafia del Restivo, ammirato il sommesso musicalissimo tono del racconto, noi pensiamo a quei tempi, a quel nostro paesino digradante tra i calanchi dell'altipiano Sicano, ai gerarchetti tronfi e panciuti che di nostro rammentiamo, al giummo aborrito da Leonardo Sciascia, alla Racalmuto fascistissima sino al midollo, come allora si soleva dire.

E date le nostre manie scorriamo nelle fluenti musicali pagine del Restivo mirabili pagine di storia, di veridica microstoria locale, della nostra Racalmuto insomma, anche qui paradigmatica senza Sciascia, oltre Sciascia.

Ci riferiamo al racconto di Calogero Restivo
 "La camicia nera".

Calogero Restivo è un uomo di scuola EMIGRATO a 14 anni sia pure nel nisseno o nel catanese e comunque non inquinato da quella falsa cultura, arrogante. saccente, ripetitiva, insulsa, localistica che oggi tanto ci angustia, ci indispettisce, ci annoia, ci frastorna. Una cultura - quella - epigonale secreta dalla figliolina selvatica del melanconico nichilista albero nocino.


Vi si contrappone questo autentico figlio della trepida civiltà contadina racalmutese che è il professore Calogero Restivo, docente emerito nelle terre del Verga, sicilianissimo dunque, senza germaniche intrusioni pirandelliane o toscanismi rondisti, lasciando da parte gli ipotattici inquinamenti dei locali della terra della ragione che svolazzano nel nulla credendosi persino poeti sommi o narratori d'avanguardia.

Adamantino, virilmente romantico Calogero Restivo ha stile, musicalità, ispirazione, tattilità da sapido narratore, da ammaliante rievocatore di tempi modi uomini miserie e gioie di un piccolo non dimenticato mondo antico. Ci avvince senza violentarci, ci trasporta lieve, melodicamente nei nostri ancestrali meandri della memoria, forse quella preistorica, non ancora inquinata da questo nuovo mondo millenario che rigurgita corrotti valori del millennio scorso rifiutati dall'incipiente novello millennio brancolante nel nulla creativo, sulle macerie del tutto antico, rinnegato.

Calogero Restivo è forse un conservatore, non rinnega quanto del passato donnette cerebrali dichiarano magari retrogrado. Vi è la vivifica malinconia del ricordo che trasla l'antico nel nuovo con continuità che sa di miracolo.

La Racalmuto di oggi, turbolenta, occidua, dall'avvenire isterilito, dall'orizzonte fugato, dalle miniere chiuse, dalle guerre neglette, dalle case collabenti, dalle dicerie frastornanti, dalla letteratura intristita, dal premio a Grassonelli, dalla cinematografia esausta, ha una sua voce narrante solo in questo esule dal nome e cognome priscamente indigeno: Calogero Restivo. Apprezziamolo, riscopriamolo, applaudiamolo, ringraziamolo.
 
•… dunque?
•Dunque: questa sorella sposa attorno al 1750 un tale Domenicantonio DI GIOVANNI di Castelgiudeo, e o perché si sposa troppo tardi o per inidoneità di lui, muore senza figli. A chi va l’eredità avuta in dote con i suoi sonanti beni parafernali? Questa mia antenata di nome MARIANNA cova una vecchia ruggine, con i suoi familiari ce l’ha … con tanto di pitazzu scritto l’avevano superdotata di tali misteriosi beni parafernali ma poi all’atto pratico se li erano tenuti stretti stretti e la sorella ancora al momento di far testamento ristava ad aviri.
•Bella ‘sta storia … non nuova peraltro, specie nei matrimoni combinati della media ed alta nobiltà medievale…
•Mio zio mi dice che la vicenda si verificò tale e quale a Racalmuto nei primi anni del ‘600 con la nobile virago Donna Aldomza del Carretto …
•Ma questa tua Marianna, una virago non mi pare ..
•Veramente da parte maschile i miei cari antenati trottavano troppo la cavallina. Pensa che ancor oggi tanti si chiamano di Sabbantonio .. come dire figli illegittimi di mio catabisnonno.. Per non parlare dei tanti preti della mia famiglia.. molto avveduti negli affari e mai casti. Qualcuno vestiva con fibbie d’argento, azzimatissimo e pur non essendo neppure parroco nel suo portone si fa effigiare un baculo episcopale … forse a simbolo di qualche altro arnese maschile …
•Ah! Ah! Ah! L’epilogo della storia?
•Lo so a memoria .. ed è quello che racconta SALVATORE LUCIANO BONVENTRE (che è andato a spigolare in ASA Notai dell’Aquila, b. 1809 . quando l’Aquila era ancora in piedi) .. “nel 1789 Marianna B. di Baccarecce, evidentemente senza prole e titolare di una dote del valore di sessanta ducati, regolò con due clausole la sua eredità, con la prima di esse lasciò i ‘tanti mobili di diversa sorte’, ossia il corredo ascendente al valore di trenta ducati ricevuto dal padre Sabbantonio al momento del matrimonio, a suo marito Domenicantonio Di Giovanni di Castelgiudeo e con la seconda clausola lasciava la proprietà della dote restante, che ancora doveva ricevere a “complimento’, ai suoi fratelli Giacomantonio e Celestino e l’usufrutto della stessa a suo marito Domenicantontio”.
•Una bella beffa, non c’è che dire. Ma il patrimonio di famiglia ebbe ad assottigliarsi a beneficio dei Di Giovanni?
•Manco per niente … vi pensarono i tanti preti venuti dopo con i loro bravi patrimoni sacri, raccolti chissà come. Pensa che ancor oggi sta in catasto una stranissima partita catastale che dopo tre o quattro secoli sta a ratificare non si capisce bene quale lascito enfiteutico per far celebrare messe a salvezza dell’anima di cicolani o forse cicolane che avevano fiducia nella missione salvifica di alcuni collaterali di miei antenati … Che Dio li abbia in gloria. Vai a Baccarecce e troverai nei portoni del palazzo avito stemmi lapidei con soli splendenti, bastoni pastorali ed il famoso acronimo JHS bellamente crociato. C’è qualche intruso in famiglia che ironizza sulla dedizione ad un vecchio zio ricchissimo di una pimpante vecchietta a nome Berenice. Fatto sta che la mia famiglia divenne locupletissima con migliaia di coppe di terra e rendite tra le più cospicue di tutto il Cicolano. Tutte queste terre una volta erano nostre .. e tali rimasero ma solo al catasto per molto tempo. La paura dell’IMU ci fa dichiarare ora la verità: quelle terre furono cedute illo tempore per il tramite di un tal geometra a nome Cavalieri che con sue scritture private cedeva, divideva, acquisiva beni immobili come noccioline. E compratori e venditori vi prestavano fiducia meglio che ai costosi e sottili notai. Tutto il Cicolano vive la tragicommedia di cessioni ed acquisti vetusti ignoti al catasto. Gli accomodamenti si sono però trovati e la nuova e già chiusa agenzia del territorio non va per il sottile.
La frivola ciarla tra avvenenti signore ha la sua dissolvenza … ora tocca tradurre in immagini ed intrufolare colti commenti nello studio della Dottoressa Giovanna Alvino – Direttore archeologo coordinatore della SBAL Soprintendenza per i beni archeologici del Lazio ---