venerdì 15 dicembre 2017

Crisi banche, Renzi e Boschi creano la gazzarra contro Visco per riabilitarsi

Sulle banche italiane non si sta facendo chiarezza, ma solo caciara politica. Il PD di Renzi cerca di rifarsi una verginità sul tema, anche al costo di trascinare l'Italia i
n uno scontro inutile e di cui si farebbe bene a meno.

di Giuseppe Timpone, pubblicato il 01 Dicembre 2017 alle ore 10:43

Sulle banche italiane non si sta facendo chiarezza, ma solo caciara politica. Il PD di Renzi cerca di rifarsi una verginità sul tema, anche al costo di trascinare l'Italia in uno scontro inutile e di cui si farebbe bene a meno.

La Commissione d’inchiesta sulle banche si sta rivelando per quello che sembrava sin dalla sua nascita, non uno strumento per fare luce sulle responsabilità di una mala gestione, che hanno portato al fallimento di alcuni istituti e a salvataggi miliardari a carico dei contribuenti italiani, bensì un tentativo del PD di Matteo Renzi a fine legislatura di riabilitare sé stesso su una vicenda, che forse è stata determinante nella sconfitta al referendum del 4 dicembre 2016 e nel suo evidente declino politico dell’ultimo anno. E’ accaduto ieri che a testimoniare sul caso Banca Etruria sia stato chiamato il procuratore di Arezzo, Roberto Rossi, che incalzato dalle domande di Carlo Sibilia del Movimento 5 Stelle, non solo ha smentito che l’ex vice-presidente dell’istituto, Pier Luigi Boschi, abbia avuto un ruolo nelle iniziative che portarono al crac, aggiungendo che non avrebbe nemmeno partecipato alle riunioni in cui furono approvati provvedimenti negativi sul piano patrimoniale; Rossi evidenzia come Bankitalia, al contrario, avrebbe insistito per fare integrare la banca toscana con la Popolare di Vicenza. (Leggi anche: Crisi banche, come la Commissione d’inchiesta rischia di colpire i mercati)

Secondo il procuratore, il governatore Ignazio Visco sollecitò nel 2014 al presidente di Banca Etruria, Lorenzo Rosi, perché si aggregasse con un altro gruppo di “elevato standing”. Le trattative furono avviate proprio con la Popolare di Vicenza, che offrì ai toscani un euro per rilevarne il controllo. L’offerta fu rifiutata e pare che, indispettita dalle mancate nozze, Bankitalia avrebbe reagito con il commissariamento. Palazzo Koch, tuttavia, si difende e nega di avere mai avallato l’integrazione con Vicenza, di cui conosceva le condizioni critiche già dal 2012, secondo la documentazione emersa dalle ispezioni.

Matteo Renzi si mostra quasi euforico in queste ore, quando dichiara che starebbero emergendo le reali responsabilità, ovvero quelle di Bankitalia e Visco, sostenendo che “non era il PD il problema”. Sulla stessa linea d’onda Matteo Orfini e Andrea Marcucci, esponenti di spicco democratici. Evidente l’obiettivo di ribaltare la narrazione di questi mesi, in base alla quale il PD non sarebbe stato in grado di gestire a suo tempo la crisi delle banche e avrebbe avuto evidenti conflitti d’interesse, come segnalerebbe la presenza nel board di Banca Etruria del padre di Maria Elena Boschi, ex ministro delle Riforme del governo Renzi e oggi sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio.

Acqua al mulino dei partiti anti-sistema

Ma questi tentativi last minute si riveleranno efficaci? Prima di rispondere, si faccia presente che Renzi avrebbe appena scatenato una guerra tra carte, con testimonianze tendenzialmente contrapposte e che potrebbero, al contrario, danneggiare il PD. Cosa accadrà quando e se l’ad Unicredit, Federico Ghizzoni, sarà chiamato a deporre in Commissione sulle rivelazioni del giornalista Ferruccio De Bortoli, in base alle quali egli avrebbe ricevuto una telefonata della Boschi (a che titolo?) per sollecitarlo a comprarsi Banca Etruria? Se queste indiscrezioni fossero provate, non saremmo dinnanzi ad alcun reato esplicito, bensì a una manifestazione di conflitto tra interessi privati e pubblici, a una sorta di mescolanza di ruoli che darebbero adito a sospetti.

Il PD potrebbe avere segnato il suo peggiore autogol, perché a distanza di pochi mesi dalle elezioni politiche appare rischiosissimo riaprire una ferita, che non si è ancora rimarginata in Italia. La crisi delle banche ha iniziato ad essere affrontata con la nascita del governo Gentiloni. Piaccia o meno il come, è indubbio che sia così. Quando Renzi lasciò Palazzo Chigi, ormai un anno fa, infuriava la tempesta contro gli istituti in borsa ed era degenerata dall’estate precedente, con cali medi che toccarono il 55% dall’inizio del 2016. Il suo governo era paralizzato dalle non scelte, con il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, che dalla fine del 2015 aveva pasticciato con espedienti inefficaci e persino deleteri per mettere in sicurezza il nostro credito bancario. (Leggi anche: Crisi banche, tutti gli errori del tragico Padoan)

Il dossier banche rischia per il PD di accrescere il disgusto degli italiani nei confronti dell’intero sistema politico-istituzionale, non di riabilitare l’ex premier sulla base di carte che nessuno mai tra gli elettori leggerà e la cui attendibilità presso l’opinione pubblica rasenta lo zero. Acqua al mulino dei partiti anti-sistema, Movimento 5 Stelle e Lega Nord, percepiti non appiattiti sulle posizioni di Bankitalia e certamente non benevoli con il PD renziano. Viene il dubbio che si tratti di una precisa strategia mediatica non per strappare consensi, bensì per buttarla in caciara e alimentare un clima elettorale avvelenato, di scompiglio e destabilizzante, con Visco costretto a scendere nella mischia, pur con la prudenza dovuta alla carica ricoperta, creando imbarazzo al Quirinale e a Palazzo Chigi. A dir il vero, pare proprio che Renzi punti a un boccone ancora più grosso, Mario Draghi, papabile futuro premier di un governo tecnico o comunque retto da un’ipotetica maggioranza Forza Italia-PD.

Renzi dovrebbe chiudere qui la vicenda

Il tema banche non può essere affrontato come irresponsabilmente sta avvenendo con l’avallo del presidente Pierferdinando Casini, che pure era stato ad oggi un esponente politico moderato e non incline a campagne denigratorie. Bisognerebbe partire dall’opacità di un capitalismo relazionale, fondato non sulla meritocrazia e su criteri oggettivi sul fronte dell’erogazione di prestiti, bensì su amicizie e persino in palese conflitto di interesse, per cui a ricevere denaro dalle banche risultano essere sempre gli stessi, rivelatisi cattivi pagatori e fonte primaria di crisi per gli istituti. Lo spiega senza dubbio la lunga lista dei debitori insolventi di MPS, tra cui grossi finanziatori del PD.

Sarebbe facile il gioco per le opposizioni di ribattere a Renzi che Siena sia stata gestita dal suo partito fino allo scorso anno, essendo i membri del cda nominati da sindaco, provincia e Regione Toscana, tutti e tre nelle mani del centro-sinistra da decenni. Altrettanto facile obiettare che la sola Sorgenia della famiglia De Benedetti, a capo anche del Gruppo L’Espresso, da sempre schierato con il PD (Carlo De Benedetti è stato sempre il tesserato numero 1), abbia ottenuto prestiti da MPS per 600 milioni, non restituiti e per i quali la banca è entrata nel capitale della società energetica con un 17%. Soldi, che non tornando indietro hanno contribuito al crac e al conseguente salvataggio con denari pubblici. Insomma, Renzi ritiene di avere segnato un punto nella partita, quando sarebbe opportuno per sé stesso, ancor prima che per il sistema Italia, che chiudesse qui il match. (Leggi anche: Perché Renzi attacca Draghi e Berlusconi lo difende)

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